L'ultima fermata

gennaio 29, 2011



Ciò che di noi arriva alla darsena immersa nel buio e nella nebbia è un'accozzaglia di disperati laceri e quasi disarmati.
Diero di noi, il prodotto ultimo di quasi sedici ore di avanzata snervante, è un infeno di auto date alle fiamme, idranti aperti al massimo come geiser impazziti, un piccolo parco trasformato in un orrore di fuoco e fumo maleodorante.
Alle spalle di tutto ciò, fr noi e le torri, si solleva il rogo dell'Istituto di Fotografia.
E ancora arrivano in cerca del nostro sangue.
Scendiamo una rampa di scalini di calcestruzzo fino al margine dell'acqua.
La Darsena di Milano non è il porto di Amburgo.
Poche barche in secca, un paio di rastrelliere di canoe, un gommone sgonfio.
In lonananza, la carcassa inclinata di un battello turistico blocca quasi compleamente il passaggio su uno dei navigli.
Mentre Ardo controllala scala, io e Alfredo caliamo in acqua una grossa scialuppa.
L'acqua è nera e oleosa.
Clo si lascia cadere su una panca storta e appoggia il volto sulle mani, i gomiti sulle ginocchia.
"Buona idea, uscire da Milano in barca," ansima lui.
Lo ignoro.
La barchetta galleggia.
faccio saltare il lucchetto della rimessa e trovo un ppadi taniche di miscela per il motorino a due tempi.
"Tutti a bordo!"
Ardo ci raggiunge arretrando e sparando con precisione.
Metto in moto il fuoribordo mentre lui salta sù.
E via.
La massa di straccioni affamati ci guarda dal molo mentre ci allontaniamo e, compiuto un mezzo giro sull'acqua nera, puntiamo verso il relitto del ferry.
Il tetto dell'Istituto di Fotografia collassa con uno schianto, ed erutta una tempesta di scintille arancioni verso il cielo nerissimo.

"L'altro canale era libero," dice Alfredo.
Ora che la paura è passata, è di nuovo lo stronzo arrogante di sempre.
"Ma io voglio seguire questo," gli rispondo.
Sopra di noi, la prua del battello è una massa scura che emana l'odore dolciastro della ruggine, stagliata contro il riflesso giallo delle nuvole basse.
Milano, dietro di noi, brucia.
Non credo ci sia qualcuno a bordo, ma teniamo gli occhi aperti.
Aggirare il relitto ci porta maledettamente vicini allargine, e alcune sagome si trascinano nel buio, seguendoci e sperando - ammesso che il cervello di un infetto possa elaborare la speranza - che noi ci si avvicini abbastanza per prenderci.
Clo scarica una sventagliata verso il buio.
"Non sprecare munizioni," le dico.
Siamo lentissimi, il motorino di manovra capace a malapena i spingerci su quest'acqua che pare melassa.
Frugo nella borsa.
Ci sono Mars e Gatorade per tutti.
È una cena così dolce da essere nauseante, ma si prende cura della fatica e del calo di zuccheri.
Fa un freddo bastardo, sull'acqua - ma è una garanzia che i gialli non ci verranno a prendere a nuoto.
In compenso, potremmo beccarci tutti una bella polmonite.
Alfredo si abbiocca in una posizione ridicola, una mano sul volto, la bocca aperta.
Dico a Clo di riposare.
A questa velocità, arriveremo a destinazione domattina.

Ci seguono.
Il nosto battello procede a passo d'uomo al centro del naviglio, ed il tossicchiare del motore, unito al nostro odore, attira tutti i gialli nel raggio di due chilometri.
All'alba, una piccola folla di infetti affolla entrambi i fianchi del canale.
Camminano lenti, torpidi per il freddo, senza staccarci gli occhi di dosso.
Di quando in quando uno incespica e casca nel canale, dove si dibatte brevemente e poi affonda come un sasso.
Sono decine, poi centinaia.
Una volta, in un quartiere grigio del quale non conosco il nome, tentano di anticiparci, eci aspettano assiepati su un ponte pedonale che scavalca il naviglio.
Arno e Clo li innaffiano di proiettili, e poi io spendo l'ultima molotov per ripulire il ponte.
Passiamo senza danni, coprendoci con un telo ceato che poi buttiamo.
Ma loro continuano a seguirci.
Una massa orribilmente silenziosa che cammina al nostro fianco, in attesa di un'opportunità.
Il motore sputacchia.
Ci fermiamo e facciamo rifornimento con la seconda tanica di miscela.
Da ore stiamo attraversando il parco delle Cave.
I gialli sono assiepati sulla riva, fra gli alberi, come un grottesco pubblico in attesa del passaggio del Giro d'Italia.
Alfredo li guarda come un topo in trappola potrebbbe guardare l'esercito dei gatti di Ulthar.
"Bella idea, hai avuto, Faina," mi dice. "Cosa ne diresti di dare una sgassata e lasciarci dietro questi orrori?"
La fa semplice lui.
"Non ho granché voglia di rischiare di capottare in quest'acqua gelida. E poi siamo quasi arrivati."
"Dove?"
Indico a valle della nostra posizione.
Sagome incerte che affiorano come iceberg dalla nebbia.
Capannoni.
Un gran pavese di bandiere lacere che si muovono appena nel vento leggero.
L'idea di un pontile, storto e malandato.
"Il cantiere dell'Expo?"
Frugo nella borsa e gli passo il depliant che ho trovato mille anni or sono, a canelli, mentre ero barricato in quella maledetta agenzia di viaggi.
Expo 2015.
Nutrire il Pianeta.
Energia per la Vita.

Lui si rigira il pieghevole fra le mani, mi guarda.
"Bello slogan, no?" gli dico. "Ci volevano fare un sacco di cose... mi sarebbe dispiaciuto passare per Milano e perdermelo."
Lui guarda il depliant, le figure.
Traccia col dito la linea che col pennarello ho marcato sulla mappa, dalla Stazione Centrale alla darsena, e poi lungo il canale fino all'Expo.
"Lo avevi progettato fin dall'inizio," dice.
"Io mi tengo sempre un'uscita aperta. E mi pare che la mia fosse comunque meglio della tua, no?"
"Tu sei pazzo," mormora.
Beh, per lo meno adesso abbiamo chiarito le nostre posizioni.
Mi riprendo il depliant, lo metto nel taschino della giacca, insieme a due cartucce di riserva.
Il pontile si avvicina.
Lentamente, comincio ad accelerare.
Sveglio Clo, sveglio Ardo.
Siamo arrivati.

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