Il volo della Faina

gennaio 31, 2011


Sono semplicemente troppi.
Forse è l'aumento della temperatura.
Forse è percfhé io e alfredo siamo tutta la carne fresca che è rimasta in questo posto.
Forse è semplicemente perché prima o poi doveva capitare.
Chiudiamo il boccapporto.
Corro avanti, scivolo sul sedile del pilota.
Alfredo vorrebbe sedersi al mio fianco.
Gli dico di restare dietro.
Di assicurarsi che non entrino dai finestrini.
Check.
Tre minuti.
Tre minuti.
Tre minuti.
Fin qui ho giocato d'azzardo e ho vinto.
Lo Zep è a Milano e non a Torino.
Vinto.
I serbatoi sono pieni.
Vinto.
Le batterie moderatamente cariche.
Vinto.
L'elio nel pallone è all'83%, più che sufficiente per sollevarci.
Vinto.

Non si può vincere in eterno.
I gialli sono ovunque.
Si aggrappano alla navicella, si arrampicano sulle gondole, saltano dalle passerelle di servizio sullo scafo del dirigibile.
Graffiano.
Picchiano coi pugni.
Motori elettrici.
Un minuto.
Ruoto i motori in posizione verticale e dò spinta.
Non succede nulla e poi, accolto da un ruggito fra gli infetti, lo zeppelin comincia lentamente a sollevarsi.
Sopra di noi i portelloni di uscita sono quasi spalancati.
Poi c'è un'esplosione - o così pare.
I pistoni del cancello sinistro grippano, una nube di vapore investe i gialli là fuori e metà della saracinesca sopra di noi ricade con un boato al suo posto, oscurando parte del cielo.
Siamo a due metri da terra.
Alzo gli occhi dagli strumenti.
Aggrappato a braccia larghe al parabrezza c'è un giallo dall'aria stravolta che mi osserva.
Se ne stà lì, appeso con le braccia spalancate per reggersi alla cornice del plexiglass, le gambe penzoloni, una lurida maglietta degli ACDC spiacicata davanti ai miei occhi, e poi lentamente, con metodo, comincia a picchiare la fronte sul parabrezza, sempre più in fretta, bang bang bang, cercando di sfondarlo.
Ignoralo ignoralo ignoralo.
Quattro metri.
Alfredo alle mie spalle bestemmia.
Lui ha ancora un'arma carica, io no.
Ignoralo ignoralo ignoralo.
Sposto il joystick con la massima delicatezza, vario l'angolo di spinta e sposto a destra la nave, cercando di infilarmi nello spazio aperto nel soffitto.
Otto metri.
L'infetto continua a picchiare col capo sul vetro, con un rumore sordo, spruzzando sangue dalla fronte spaccata, ma non mi stacca gli occhi di dosso.
Ignoralo ignoralo ignoralo.
Un po' più destra.
Dieci metri.
Dodici.
Raschio malamente una passerella di servizio e poi, con un suono di metallo contro metallo ed uno scrollone, smettiamo di muoverci, smettiamo di salire.
Il giallo aggrappato al parabrezza non sopporta il contraccolpo e casca di sotto.
C'è un gemito metallico, e una tempesta di colpi alla nostra fiancata.
Mi affaccio dal finestrino a boolla.
La gondola destra è incastrata nella passerella di servizio, e i gialli la stanno usando come ponte per arrivarci più vicini, per colpirci.
Forse, per raggiungere il portello di manutenzione posteriore.
Uno barcolla, scivola e viene aspirato nel tubo e affettato dalle pale.
La gondola comincia a fumare nero, e a spruzzare olio lubrificante.
Il quadro comandi è una selva di indicatori e lucette che lampeggiano.
Alzo gli occhi.
Abbasso la leva centrale, giro la chiave del sistema d'emergenza, seleziono gli interruttori della gondola destra.
"Tieniti forte!" strillo.
Tre
Due
Uno
I bulloni esplosivi staccano di netto la gondola dal piantone.
Il motore grippato precipita quindici metri più sotto con un tonfo, trascinando con se i suoi passeggeri.
Siamo liberi.
L'aeronave si inclina, sale, cerco di controllarla.
Ci incuneiamo nell'apertura ed il suono dello scafo che passa contro il metallo del portello bloccato è come il suono di un colossale tergicristallo su un parabrezza asciutto.
Un albero di natale di spie si accende sul mio quadro comandi.
Collisione.
Frattura dello scafo esterno.
Perdita di pressione.
La lancetta dell'elio rotola verso il settanta per cento.
Non si può vincere sempre.

Riconfiguro i ballonet sperando di compensare la perdita di pressione, e poi all'improvviso siamo fuori, e saliamo lenti nel cielo sopra alle macerie dell'Expo.
Spengo le spie non necessarie.
Faccio tacere i cicalini.
Faccio arretrare e ruotare il sedile.
Alfredo ha un sorriso largo tre spanne, ed un'arma carica.
Tre giorni di guerriglia, tutta la sua corte devastata e uccisa e sbranata, e lui ne esce fresco come una rosa, e con un'arma carica.
"Cristo, Faina," dice, ridendo, "lo sapevo che potevo fidarmi."
È bello rilassato e con un'arma carica.
E si appoggia al boccapporto.
Premo il pulsante.
Il boccapporto si apre.
Lui casca di sotto.
Bisogna dargli credito - per due minuti buoni rimane appeso al boccapporto aperto, strillando nell'aria gelida.
Ha anche la presenza di spirito di sparare un paio di pistolettate verso la cabina di pilotaggio.
Il plexiglass si sfonda, una delle due consolle erutta una nube di scintille.
Attraverso il plexiglass forato del finestrino ci guardiamo negli occhi.
"Salutami le ragazze," gli dico.
E lui precipita di sotto.
I gialli lo aspettano a braccia tese.
Per quasi un minuto è come se stesse facendo crowd surfing, come Peter Gabriel ad un concerto.



L'orda si chiude su di lui.
Recupero un estintore e spengo il piccolo incendio in cabina.
Vado a chiudere manualmente la porta.
Arriva uno spiffero maledetto.
Poi mi sistemo su uno dei sedili di pelle e velluto candidi, e lascio che le leggi della fisica facciano il loro corso.

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