Coda - Stanotte si vola

febbraio 01, 2011

E questo è quanto.
Sono a circa trecento metri da terra.
Alle mie spalle si addensano nubi nere, e il vento mi spinge verso i picchi innevati delle Alpi.
La campagna di sotto è immobile.
Libby per ora regge.
La perdita di elio è stabilizzata.
Il motore di sinistra è inutilizzabile.
La manovrabilità è quella di una balena spiaggiata.
Ma se non si hanno grandi velleità di controllo - ed io ormai non ne ho - e se lasciarsi portare dal vento è ok - e per me è ok - allora non ci si può lamentare.
Ho venti pasti in cambusa pronti per il microonde - tagliolini speck e zafferano, spezzatino e patate, panna cotta.
Anche una manciata di pasti vegetariani.
Posso pasteggiare a Perrier per quasi un mese.
Ho coperte con il logo della Zeppelin per ripararmi dal freddo.
Il netbook è connesso al transponder e da lì ad un vecchio servizio dial-up.

Ma non credo ci saranno altri messagi.
Mi aspettano giorni monotoni e poi, chissà, un breve lampo di azione frenetica.
Come diceva quel tale, non è la caduta che ti ammazza.
È la fermata improvvisa.
Ma per ora, stanotte si vola.
Questa è la Faina, che passa.
E chiude.




Stanotte voliamo, sopra le case, le strade e le piante, sopra ai cani là sotto, che abbaieranno alle nostre ombre, mentre noi galleggiamo sulla brezza.
Stanotte voliamo, sopra ai comignoli, gli abbaini e le tegole, guardando in tutte le vostre vite, e domandandoci perché la felicità sia così difficile da trovare.

Sopra al dottore, sopra al soldato, sopra al contadino, sopra al bracconiere, sopra al predicatore, sopra al giocatore d'azzardo, sopra all'insegnante, sopra al vagabondo, sopra all'avvocato, sopra al ballerino, sopra al guardone, sopra al costruttore ed al distruttore
Sopra le colline e lontano da qui.

Stanotte voliamo, sopra le montagne, la spiaggia ed il mare, sopra gli amici che abbiamo conosciuto, e quelli che ora conosciamo, e quelli che dobbiamo ancora incontrare.

E quando moriremo, oh saremo poi così delusi o tristi, se il paradiso non dovesse esistere, cosa ci saremmo poi persi?
Questa è la miglior vita che abbiamo mai avuto.
[Neil Hannon]

Il volo della Faina

gennaio 31, 2011


Sono semplicemente troppi.
Forse è l'aumento della temperatura.
Forse è percfhé io e alfredo siamo tutta la carne fresca che è rimasta in questo posto.
Forse è semplicemente perché prima o poi doveva capitare.
Chiudiamo il boccapporto.
Corro avanti, scivolo sul sedile del pilota.
Alfredo vorrebbe sedersi al mio fianco.
Gli dico di restare dietro.
Di assicurarsi che non entrino dai finestrini.
Check.
Tre minuti.
Tre minuti.
Tre minuti.
Fin qui ho giocato d'azzardo e ho vinto.
Lo Zep è a Milano e non a Torino.
Vinto.
I serbatoi sono pieni.
Vinto.
Le batterie moderatamente cariche.
Vinto.
L'elio nel pallone è all'83%, più che sufficiente per sollevarci.
Vinto.

Non si può vincere in eterno.
I gialli sono ovunque.
Si aggrappano alla navicella, si arrampicano sulle gondole, saltano dalle passerelle di servizio sullo scafo del dirigibile.
Graffiano.
Picchiano coi pugni.
Motori elettrici.
Un minuto.
Ruoto i motori in posizione verticale e dò spinta.
Non succede nulla e poi, accolto da un ruggito fra gli infetti, lo zeppelin comincia lentamente a sollevarsi.
Sopra di noi i portelloni di uscita sono quasi spalancati.
Poi c'è un'esplosione - o così pare.
I pistoni del cancello sinistro grippano, una nube di vapore investe i gialli là fuori e metà della saracinesca sopra di noi ricade con un boato al suo posto, oscurando parte del cielo.
Siamo a due metri da terra.
Alzo gli occhi dagli strumenti.
Aggrappato a braccia larghe al parabrezza c'è un giallo dall'aria stravolta che mi osserva.
Se ne stà lì, appeso con le braccia spalancate per reggersi alla cornice del plexiglass, le gambe penzoloni, una lurida maglietta degli ACDC spiacicata davanti ai miei occhi, e poi lentamente, con metodo, comincia a picchiare la fronte sul parabrezza, sempre più in fretta, bang bang bang, cercando di sfondarlo.
Ignoralo ignoralo ignoralo.
Quattro metri.
Alfredo alle mie spalle bestemmia.
Lui ha ancora un'arma carica, io no.
Ignoralo ignoralo ignoralo.
Sposto il joystick con la massima delicatezza, vario l'angolo di spinta e sposto a destra la nave, cercando di infilarmi nello spazio aperto nel soffitto.
Otto metri.
L'infetto continua a picchiare col capo sul vetro, con un rumore sordo, spruzzando sangue dalla fronte spaccata, ma non mi stacca gli occhi di dosso.
Ignoralo ignoralo ignoralo.
Un po' più destra.
Dieci metri.
Dodici.
Raschio malamente una passerella di servizio e poi, con un suono di metallo contro metallo ed uno scrollone, smettiamo di muoverci, smettiamo di salire.
Il giallo aggrappato al parabrezza non sopporta il contraccolpo e casca di sotto.
C'è un gemito metallico, e una tempesta di colpi alla nostra fiancata.
Mi affaccio dal finestrino a boolla.
La gondola destra è incastrata nella passerella di servizio, e i gialli la stanno usando come ponte per arrivarci più vicini, per colpirci.
Forse, per raggiungere il portello di manutenzione posteriore.
Uno barcolla, scivola e viene aspirato nel tubo e affettato dalle pale.
La gondola comincia a fumare nero, e a spruzzare olio lubrificante.
Il quadro comandi è una selva di indicatori e lucette che lampeggiano.
Alzo gli occhi.
Abbasso la leva centrale, giro la chiave del sistema d'emergenza, seleziono gli interruttori della gondola destra.
"Tieniti forte!" strillo.
Tre
Due
Uno
I bulloni esplosivi staccano di netto la gondola dal piantone.
Il motore grippato precipita quindici metri più sotto con un tonfo, trascinando con se i suoi passeggeri.
Siamo liberi.
L'aeronave si inclina, sale, cerco di controllarla.
Ci incuneiamo nell'apertura ed il suono dello scafo che passa contro il metallo del portello bloccato è come il suono di un colossale tergicristallo su un parabrezza asciutto.
Un albero di natale di spie si accende sul mio quadro comandi.
Collisione.
Frattura dello scafo esterno.
Perdita di pressione.
La lancetta dell'elio rotola verso il settanta per cento.
Non si può vincere sempre.

Riconfiguro i ballonet sperando di compensare la perdita di pressione, e poi all'improvviso siamo fuori, e saliamo lenti nel cielo sopra alle macerie dell'Expo.
Spengo le spie non necessarie.
Faccio tacere i cicalini.
Faccio arretrare e ruotare il sedile.
Alfredo ha un sorriso largo tre spanne, ed un'arma carica.
Tre giorni di guerriglia, tutta la sua corte devastata e uccisa e sbranata, e lui ne esce fresco come una rosa, e con un'arma carica.
"Cristo, Faina," dice, ridendo, "lo sapevo che potevo fidarmi."
È bello rilassato e con un'arma carica.
E si appoggia al boccapporto.
Premo il pulsante.
Il boccapporto si apre.
Lui casca di sotto.
Bisogna dargli credito - per due minuti buoni rimane appeso al boccapporto aperto, strillando nell'aria gelida.
Ha anche la presenza di spirito di sparare un paio di pistolettate verso la cabina di pilotaggio.
Il plexiglass si sfonda, una delle due consolle erutta una nube di scintille.
Attraverso il plexiglass forato del finestrino ci guardiamo negli occhi.
"Salutami le ragazze," gli dico.
E lui precipita di sotto.
I gialli lo aspettano a braccia tese.
Per quasi un minuto è come se stesse facendo crowd surfing, come Peter Gabriel ad un concerto.



L'orda si chiude su di lui.
Recupero un estintore e spengo il piccolo incendio in cabina.
Vado a chiudere manualmente la porta.
Arriva uno spiffero maledetto.
Poi mi sistemo su uno dei sedili di pelle e velluto candidi, e lascio che le leggi della fisica facciano il loro corso.

Libby

gennaio 30, 2011

Il cantiere dell'Expo ha tutta la tristezza spettrale di un lunapark abbandonato.Le intemperie hanno trasformato in brandelli sbiancati i teli che avvolgevano le impalcature, esposto i tondini rugginosi al cuore di plinti in calcestruzzo ormai eorosi, spaccato i blocchi dei vialetti, che ora paiono ioste precolombiane fra i cespi di giungla che sono le aiuole impazzite.
Mettendo il motore al massimo guadagnamo forse cinque minuti di vantaggio sulla massa di gialli su questo argine.
Mentre saltiamo i tornelli, i primi si fermano alla recinzione metallica, afferrando le griglie, facendole oscilare avanti e indietro con un cigolio sempre più intenso.
Tutto il mondo avrebbe dovuto essere qui, ma i più sono assenti per malattia, i lotti dell'esposizione abbandonati.
Ci sono solo le strutture parziali messe in piedi dai soliti primi della classe - i tedeschi, i giapponesi, i cinesi.
Superiamo correndo un grande torii oltre il quale la sagoma scrostata di un Gundam in scala 1:1 sembra osservarci mentre proseguiamo verso il padiglione tedesco.

Una immagine sorridente di Joey Yung si materializza nella foschia come un'apparizione mariana.
Il padiglione cineswe semra il sito di un bombardamento con cariche incendiarie.


Consulto la mia mappa.
A sinistra alla prossima.
I cartelli indicatori sono illeggibili.
In lontananza, il cigolio della recinzione si interrompe, seguito da uno schianto.
E poi da un ruggito.
Centinaia di gole devastate dalla malatia che lasciano esplodere nell'aria fredda una ame incomprensibile.
Stanno arrivando.
Ilpadiglione tedesco è chiuso da un cancello metallico.
Catena spessa.
Lucchetto da guerra.
Bestemmio.
Raccatto una spranga metallica da una panchina smantellata e la uso per far saltare la catena.
Ardo e Clo cominciano a psarare.
Il cancello si apre.
"Dentro dentro dentro..."
Chiudiamo il cancello, usando la spranga per bloccarlo.
Non durerà a lungo.
Il padiglione incombe su di noi come una gigantesca vela, come un fazoletto lasciato cadere da un gigante.
Le porte a vetri sono chiuse, l'interno è in ombra, ma io punto sulla destra, dove una scaletta di servizio chiusa da un cancello porta ad un accesso a circa dieci metri da terra.
Altro cancello.
Chiusura elettrica.
Sfondo la scatola di controllo col calcio del fucile, collego a mano i fili, la porta si apre.
Alfredo entra, con Clo alle calcagna.
Poi una mano mi si pianta in mezzo alla schiena e mi spinge dentro.
Il cancello si chiude alle mie spalle, mentre Arno comincia ar urlare e a sparare all'impazzata.
Sanguina da una spalla, la manica squarciata.
La sua corsa finisce qui.
Sposto Alfredo con una spallata e salgo i gradini tre per volta.
Porta.
Chiusura elettrica.
Niente scatola.
Sparo alla serratura.
Butto dentro gli altri, entro chiudo.
Distributore di Pepsi.
Lo faccio crollare davanti alla porta, in modo che si incastri contro la balaustra.
Ardo smette di sparare.
Gli altri sono immobili, gli occhi sgranati.
"Fottutissimo figlio di puttana..." sussurra Alfredo.
Siamo su un piccolo camminamento, una passerella di servizio che gira attorno al padiglione centrale.
Davanti a noi, su una curva superficie candida, colossali lettere stampatello.
Z E P P E L I N
Tombola.
La prima mano è mia.


"Fottutissimo figlio di puttana..." ripete Alfredo.
Pugni cominciano a colpire la porta.
Clo si toglie gli occhiali scuri.
"Cos'è?" mi chiede.
Procediamo lungo la passerella.
"Zeppelin NT 14 plus," gli passo il depliant. "'ammiraglia della futura flotta dei cieli della Germania... beh, al momento credo che il progetto sia sospeso a tempo indeterminato."
Pare confusa.
Probabilmente se le dico Zeppelin lei pensa a Stairway to Heaven.
C'è un panello di controllo.
Con un gemito da oltretomba, i martinetti idraulici cominciano a muoversi.
Nell'oscurità sopra di noi si apre una lunga linea luminosa.
E anche la seconda.

Scendo di sotto, gli altri dietro.
"Scafo in trilaminato, motori elettrici alimentati da celle ad alta efficienza sulla sommità, più un trio di Textron Lycoming IO-360 boxer," spiego.
Il pavimento è ancora lucidissimo.
Laggiù, corpi ammassati spingono contro le porte a vetri.
Conviene muoversi.
"Può fare i 100 all'ora, ma una volta presa quota, non abbiamo particolarmente fretta," continuo. "Penso che la chiamerò Libby."
"Lo hai sempre saputo!" strilla Alfredo.
"Da settimane."
C'erano i depliant a Canelli.
Già nel '13 ci facevano i voli Milano-Torino e ritorno.
Cento cucuzze a testa.
Il portello si apre.
Venti posti a sedere, minibar, finestrini panoramici.
Le luci si accendono senza neanche un tremolio.
Tedeschi.
Se non facevano guerre, quelli...

"Non ne hai parlato sul tuo blog!" dice Alfredo.
Pare offeso.
"Volevo evitare di trovare la coda."
"Non ne hai parlato a noi..."
"Non mi pare esattamente il momento di discutere di trasparenza, vero? Vai a sganciare l'ormeggio di poppa..."
Le porte a vetri esplodono.
I gialli vengono a prenderci.
Mi servono cinque minuti.
Cinque maledetti minuti.
Clo comincia a sparare.
La sala si fa sempre più luminosa.
Sfondo il vetro, sgancio l'idrante, mi metto al lavoro.
Cinque maledetti minuti, e speriamo che i ballonet siano in pressione.

Cinque minuti...
Cinque giorni...
Cinque lustri...
Sono centinaia.
Arrivano a ondate, a piedi o strisciando sulle ginoccia, impacciati nei movimenti, scivolando e cadendo sul marmo bagnato, intorpiditi dall'acqua gelida, crivellati di proiettili, e quando i proiettili finiscono usiamo il calcio delle armi, ed arretriamo e poi all'improvviso...
Basta.
Non ce ne sono più.
Sopra di noi il tetto della struttura è aperto per tre quarti, l'acceso alla navicella è libero.
Respirando a fatica, mi guardo attorno.
Clo mi staguardando.
Ha la bocca aperta in una "o" sorpresa e la destra sollevata, e sul palmo della mano la mezzaluna di una ferita provocata da un morso profondo.
Mi guarda e per la prima volta nei suoi occhi c'è una scintilla di vita.
Cerca di dire qualcosa.
Poi la sua testa esplode.
Siamo solo io e Alfredo.
E lui ha ancora un'arma carica.
"Era spacciata comunque," mi dice. Scrolla il capo. "Povera puttana."
"Diamoci una mossa," dico io.
"Lo sai pilotare?"
"Fly-by-wire..." gli dico.
Ho scaricato il manuale da internet.
E con un nuovo ruggito, l'ultima carica dei gialli è su di noi.

L'ultima fermata

gennaio 29, 2011



Ciò che di noi arriva alla darsena immersa nel buio e nella nebbia è un'accozzaglia di disperati laceri e quasi disarmati.
Diero di noi, il prodotto ultimo di quasi sedici ore di avanzata snervante, è un infeno di auto date alle fiamme, idranti aperti al massimo come geiser impazziti, un piccolo parco trasformato in un orrore di fuoco e fumo maleodorante.
Alle spalle di tutto ciò, fr noi e le torri, si solleva il rogo dell'Istituto di Fotografia.
E ancora arrivano in cerca del nostro sangue.
Scendiamo una rampa di scalini di calcestruzzo fino al margine dell'acqua.
La Darsena di Milano non è il porto di Amburgo.
Poche barche in secca, un paio di rastrelliere di canoe, un gommone sgonfio.
In lonananza, la carcassa inclinata di un battello turistico blocca quasi compleamente il passaggio su uno dei navigli.
Mentre Ardo controllala scala, io e Alfredo caliamo in acqua una grossa scialuppa.
L'acqua è nera e oleosa.
Clo si lascia cadere su una panca storta e appoggia il volto sulle mani, i gomiti sulle ginocchia.
"Buona idea, uscire da Milano in barca," ansima lui.
Lo ignoro.
La barchetta galleggia.
faccio saltare il lucchetto della rimessa e trovo un ppadi taniche di miscela per il motorino a due tempi.
"Tutti a bordo!"
Ardo ci raggiunge arretrando e sparando con precisione.
Metto in moto il fuoribordo mentre lui salta sù.
E via.
La massa di straccioni affamati ci guarda dal molo mentre ci allontaniamo e, compiuto un mezzo giro sull'acqua nera, puntiamo verso il relitto del ferry.
Il tetto dell'Istituto di Fotografia collassa con uno schianto, ed erutta una tempesta di scintille arancioni verso il cielo nerissimo.

"L'altro canale era libero," dice Alfredo.
Ora che la paura è passata, è di nuovo lo stronzo arrogante di sempre.
"Ma io voglio seguire questo," gli rispondo.
Sopra di noi, la prua del battello è una massa scura che emana l'odore dolciastro della ruggine, stagliata contro il riflesso giallo delle nuvole basse.
Milano, dietro di noi, brucia.
Non credo ci sia qualcuno a bordo, ma teniamo gli occhi aperti.
Aggirare il relitto ci porta maledettamente vicini allargine, e alcune sagome si trascinano nel buio, seguendoci e sperando - ammesso che il cervello di un infetto possa elaborare la speranza - che noi ci si avvicini abbastanza per prenderci.
Clo scarica una sventagliata verso il buio.
"Non sprecare munizioni," le dico.
Siamo lentissimi, il motorino di manovra capace a malapena i spingerci su quest'acqua che pare melassa.
Frugo nella borsa.
Ci sono Mars e Gatorade per tutti.
È una cena così dolce da essere nauseante, ma si prende cura della fatica e del calo di zuccheri.
Fa un freddo bastardo, sull'acqua - ma è una garanzia che i gialli non ci verranno a prendere a nuoto.
In compenso, potremmo beccarci tutti una bella polmonite.
Alfredo si abbiocca in una posizione ridicola, una mano sul volto, la bocca aperta.
Dico a Clo di riposare.
A questa velocità, arriveremo a destinazione domattina.

Ci seguono.
Il nosto battello procede a passo d'uomo al centro del naviglio, ed il tossicchiare del motore, unito al nostro odore, attira tutti i gialli nel raggio di due chilometri.
All'alba, una piccola folla di infetti affolla entrambi i fianchi del canale.
Camminano lenti, torpidi per il freddo, senza staccarci gli occhi di dosso.
Di quando in quando uno incespica e casca nel canale, dove si dibatte brevemente e poi affonda come un sasso.
Sono decine, poi centinaia.
Una volta, in un quartiere grigio del quale non conosco il nome, tentano di anticiparci, eci aspettano assiepati su un ponte pedonale che scavalca il naviglio.
Arno e Clo li innaffiano di proiettili, e poi io spendo l'ultima molotov per ripulire il ponte.
Passiamo senza danni, coprendoci con un telo ceato che poi buttiamo.
Ma loro continuano a seguirci.
Una massa orribilmente silenziosa che cammina al nostro fianco, in attesa di un'opportunità.
Il motore sputacchia.
Ci fermiamo e facciamo rifornimento con la seconda tanica di miscela.
Da ore stiamo attraversando il parco delle Cave.
I gialli sono assiepati sulla riva, fra gli alberi, come un grottesco pubblico in attesa del passaggio del Giro d'Italia.
Alfredo li guarda come un topo in trappola potrebbbe guardare l'esercito dei gatti di Ulthar.
"Bella idea, hai avuto, Faina," mi dice. "Cosa ne diresti di dare una sgassata e lasciarci dietro questi orrori?"
La fa semplice lui.
"Non ho granché voglia di rischiare di capottare in quest'acqua gelida. E poi siamo quasi arrivati."
"Dove?"
Indico a valle della nostra posizione.
Sagome incerte che affiorano come iceberg dalla nebbia.
Capannoni.
Un gran pavese di bandiere lacere che si muovono appena nel vento leggero.
L'idea di un pontile, storto e malandato.
"Il cantiere dell'Expo?"
Frugo nella borsa e gli passo il depliant che ho trovato mille anni or sono, a canelli, mentre ero barricato in quella maledetta agenzia di viaggi.
Expo 2015.
Nutrire il Pianeta.
Energia per la Vita.

Lui si rigira il pieghevole fra le mani, mi guarda.
"Bello slogan, no?" gli dico. "Ci volevano fare un sacco di cose... mi sarebbe dispiaciuto passare per Milano e perdermelo."
Lui guarda il depliant, le figure.
Traccia col dito la linea che col pennarello ho marcato sulla mappa, dalla Stazione Centrale alla darsena, e poi lungo il canale fino all'Expo.
"Lo avevi progettato fin dall'inizio," dice.
"Io mi tengo sempre un'uscita aperta. E mi pare che la mia fosse comunque meglio della tua, no?"
"Tu sei pazzo," mormora.
Beh, per lo meno adesso abbiamo chiarito le nostre posizioni.
Mi riprendo il depliant, lo metto nel taschino della giacca, insieme a due cartucce di riserva.
Il pontile si avvicina.
Lentamente, comincio ad accelerare.
Sveglio Clo, sveglio Ardo.
Siamo arrivati.

L'ultima corsa

Per tre, quattro isolati le cose sembrano andare bene.
È una gimkana fra auto rovesciate e detriti, ma riusciamo a distanziare il grosso dell'orda.
Le strade attorno alla stazione sono una trappola, ingombre di infetti, strette, piene di curve.
I gialli si accalcano al punto che non si riesce a sfondare la loro massa, camminano, barcollano, alcuni strisciano sulle mani, riamnimati dalla temperatura che ci regala una fottutissima giornata primaverile.
I guai cominciano quando il SUV numero due si incaglia su un furgone rovesciato.
Gli infetti gli si fanno attorno.
Stevan ingrana la retro, l'auto sobbalza urtando lo scalino alto del marciapiede, si schianta su un lampione.
I gialli la pressano da vicino.
Non riesce a rimettere in moto.
Freno.
"Cosa pensi di fare?!"
Alfredo è fuori controllo.
"Tu cosa credi?"
Questa faccenda sta diventando sempre peggio.
Fare inversione in questo budello richiede sei o sette manovre.
Nel momento in cui il nostro fianco sinistro è rivolto verso l'auto di Stevan e delle ragazze, ordino a Ardo di aprire il fuoco.
Lui esita, chiede conferma con lo sguardo a Alfredo.
Imprecando, rivolgo l'auto verso il SUV in panne.
I gialli lo ricoprono come formiche su un lombrico morto.
Finalmente il nostro sudaticcio condottiero dà il benestare per fare fuoco.
Ardo abbassa il finestrino e invece di mirare col fucile d'assalto, innaffia la catasta di corpi col P90.
Accelero, dandogli dell'idiota, mentre i proiettili ad alta velocità fanno carne trita degli infetti.
Travolgendo un paio dii malcapitati, mi affianco al SUV.
Le ragazze sono dietro.
Strillano.
Stevan è riverso sul sedile, il parabrezza spruzzato di sangue e sfondato, vittima di quello che una volta chiamavano fuoco amico.
"Falle salire!"
Ardo esita, poi apre la portiera,.
Le ragazze si buttano fuori.
Clo è la prima a salire.
Si volta per aiutare Chibi.
Mani afferrano la ragazzina da dietro, e lei scompare nella massa di infetti con un breve squittio animale.
"Via, Via, Via...!"
Via.
Clo sta strillando.
Alfredo sta strillando.
Ardo è ammutolito.
Usciamo dal labirinto, attraversiamo un campo di calcio che pare una savana, imbocchiamo una strada travolgendo un paio di gialli allo sbando, poi avvisto una rampa, un edificio commerciale, un parcheggio a torre, svolto, salgo di due piani, mi fermo.
Da qui si vede tutta Milano.
E non è un bello spettacolo.

Dal tetto del parcheggio, le torri che erano la nostra destinazione si stagliano contro il cielo grigio come due dita mozzate.
Fiamme si levano anche dalla stazione.
Clo piange, seduta nella portiera aperta del SUV.
Alfredo cammina facendo un percorso ad otto, come un orso in gabbia.
Ardo tiene d'occhio la rampa d'accesso.
Sotto di noi, il numero di gialli sta aumentando.
Sentono il nostro odore, l'odore del sangue e della benzina.
Dalle torri si levano volute di fumo, piccoli focolai d'incendio a diversi piani.
"Forse è ora che chiami i tuoi contatti," dico ad Alfredo.
È ora di vedere.
"Qui non c'è campo," dice.
Stronzo.
"Usa l'uplink satellitare..." gli dico.
Forza, forza, forza, vediamole queste carte.
Lui esita.
"No, è che..."
"Non mi pare che le torri siano in buone condizioni," gli dico, puntando il dito.
Quasi in risposta al mio gesto, una piccola esplosione fa sbocciare una rosa di fuoco al sesto piano di uno dei due edifici.
"No, beh, i miei contatti sono..."
"Sono cosa?"
Anche Clo si alza in piedi, gli si avvicina, lo guarda.
"Sono un paio di giorni che non li sento," ammette alfredo.
Tombola.
"Un paio di giorni?"
"Non più di cinque," dice, con un sorriso stupido.
Una seconda esplosione sulla torre.
"E allora spiegami," gli dico, in tono ragionevole, "cosa ci facciamo in questa città del cazzo?"
Lui scrolla la testa.
È molto sudato e molto pallido.
A quel punto Clo cerca di ucciderlo.

O per lo meno di fargli molto male.
Lo chiama bastardo, figlio di puttana, stronzo.
Gli artiglia gli occhi con le unghie laccate di viola, lo spintona, lo colpisce coi pugni, e strilla, e piange, finché lui la stende con un manrovescio, e quando è a terra le assesta un calcio nelle costole.
La ragazza cerca di alzarsi.
Un secondo calcio.
Poi Ardo spara, due brevi raffiche da tre colpi.
"Stanno arrivando," dice.
Alfredo si volta a guardarmi.
"Speravi di evocare i tuoi amici gettando un paio di manciate di coca nel vento?" gli chiedo.
Recupero la doppietta e le mie borse dal bagagliaio.
"Cosa pensi di fare?" mi chiede.
Clo si sta rimettendo in piedi.
Sollevo il P90 che Ardo ha lasciato sul sedile. "Lo sai usare?" le chiedo.
Lei annuisce. "Sai che scienza," dice, prendendolo.
Le passo anche la borsa coi caricatori.
"Faccio il mio lavoro," dico ad Alfredo. "Trascino il tuo culo rotto e quello dei tuoi soci fuori da questa palude."
UIl suo viso rigato dai graffi si apre in un ghigno.
"Lo sapevo che potevo fidarmi," dice.
Mi avvicino.
Molto vicino.
Arno spara ancora.
"Non hai capito," gli spiego. "Trascino il tuo culo rotto fuori da questa palude, e poi ti uccido."
Mi volto e lo lascio lì.
"C'è una passerella di servizio sul lato sinistro dell'edificio," spiego, muovendomi.
Affianco Ardo e sgancio un paio di molotov lungo la rampa.
Esplosioni.
Un giallo in versione uomo infuocato precipita urlando dal piano di sotto.
Pessimo cocktal, molotov ed automobili.
"Non possiamo contare sul volume di fuoco, dovremo contare sulla velocità," dico. "Io apro la strada, Ardo in coda. Clo, se lo stronzo scarta anche di un centimetro, sparagli."
"Con piacere."
"Muoviamoci, che le lancette girano."
L'ultima corsa è cominciata.

Com'è grande la città...

gennaio 26, 2011

La periferia di Milano è come tutte le periferie delle grandi città: brutta, sporca, e zeppa di mostri che ti vogliono mangiare vivo.
Devi continuare a pensare a loro come a mostri e non come ad esseri umani infetti, o ti si scardina il cervello e finisci conciato peggio di loro.
Sono mostri.
Zombie.
Gialli.
Ce n'è una quantità enorme.
E hanno fame.

I problemi cominciano nel momento in cui usciamo dalla tangenziale.
Capannoni, scatole di calcestruzzo, lotti sfitti.
Mobilifici, discount, teatri e arene coperte, tutto immerso nella luce lattiginosa dell'alba, tutto morto.
Sagome incerte si muovono nella distanza.
Alfredo mi dice di puntare verso il centro.
Gira a sinistra.
Gira a destra.
Il posto si chiama Piazza Freud.
Il genere di cosa che se la mettessi in un romanzo nessuno ci crederebbe.
Suda.
Fa un freddo becco, ma Alfredo suda.
La cosa non mi piace.
Non mi piace per niente.
Dietro di me, ad intervalli regolari, Ardo sussurra qualcosa in una lingua che non conosco nella ricetrasmittente Brondi.
Stevan gli risponde.
Ping.
Ping-back.

Io sono nato a Torino.
Torino ha una pianta romana a scacchiera.
Non ci si perde neanche se si è bendati e stupidi.
Milano è una città del cazzo con una pianta disegnata da uno schizofrenico, nella quale devo raggiungere un posto mai visto seguendo la segnaletica che porta alla stazione.
Rotonde ovali, incroci a otto vie stile Union Jack, viuzze strimilzite, vicoli ciechi.
Aggiungete al mix le cataste di auto bruciate risalenti all'epoca dei disordini, l'occasionale edificio crollato, gli ampi tratti allagati dove qualche corso d'acqua pavimentato per farci un parcheggio ha ripreso possesso del proprio spazio, immergete il tutto in una bella nebbia densa, ed avrete una mezza idea di quanto storta sia stata quest'idea fin dall'inizio.
Cosa ci facciamo in questo posto?
E le presenze continuano a muoversi nella nebbia.
Non sono l'unico ad averli notati.
"Potrebero non essere infetti," mi dice Alfredo, detergendosi la fronte. "Potrebbero essere sciacalli, saccheggiatori..."
Come se questo dovesse tranquillizzarmi.

Il parabrezza è antiproiettile, e lo scopro quando quattro colpi lo incrinano ma non lo attraversano, facendo sbocciare una strana costellazione di fratture.
La strada è bloccata da una barricata costruita con competenza.
Dalla sommità, un uomo solleva una carabina e strilla "Andatevene!"
Non è solo.
Porta una di quelle tute bianche da decontaminazione.
"Andatevene!"" ripete, "Noi qui estranei non ne vogliamo!"
Diero di noi, il suv di Stevan tossisce, fatica a rimettersi in moto, gratta maledettamente la marcia.
"Andatevene!" strilla di nuovo l'uomo sull abarricata. "Qui siamo gente per bene... non costringeteci a uccidervi!"
Stevan riesce finalmente a muoversi, e con cautela facciamo marcia inditro, senza dar loro il grattacapo di doverci ammazzare.
Se questa è la gente per bene, non voglio incontrare gli sciacalli.

Il tempo passa.Il sole sorge pallido e smorto sopra i tetti, ma le strade restano intasate dalla bruma, come acqua sporca sul fondo di un lavandino.
Seguiamo un ampio viale alberato, passiamo sotto ad una specie di ponte dei sospiri, poi svoltiamo in un labirinto di viuzze, e finalmente sbuchiamo davanti alla stazione.
"Gesù Cristo..."
Sono a migliaia.

Pronti alla partenza

gennaio 25, 2011

Domattina si parte.
Finite le chiacchiere, finiti i preparativi.
Alfredo ha fretta di arrivare a Milano, ha fretta di prendere contatto con i suoi compari.
È nervoso, scostante.
Due automobili, pieno assetto da guerra, per percorrere neanche cento chilometri.
Tutta autostrada.
La misteriosa signora dell'ala sud non sarà della partita.
Chiunque sia, quale che sia il suo ruolo in tutta questa faccenda, lei resta qui.
Forse questo è uno dei motivi del nervosismo del padrone di casa.
Se lo è davvero, il padrone di casa.
Sei persone, due auto.
Io, Alfredo e Ardo sulla vettura di punta.
Stevan con le due ragazze in retroguardia.
Espongo le mie ultime obiezioni.
Siamo troppo carichi, siamo troppo sgranati, ci stiamo andando a cacciare nella bocca dell'inferno.
Milano sarà una trappola mortale.
Ma Alfredo non ci sente.
Sei persone, due auto.

Riesco solo a convincerlo a partire due ore prima dell'alba - in modo da essere in città col picco del freddo.
Poi tutti a fare gli ultimi preparativi.
In un modo o nell'altro, entro domani sera, sarà tutto finito.

Benzina

gennaio 23, 2011

Il sole sorge e io e Ardo siamo pronti a partire sul suv per un malaccorto raid in cerca di benzina a Nizza.
Malaccorto perché la lista dei buoni motivi per evitare un'uscita del genere è lunga un braccio.
"Anche ammesso di trovare una pompa che abbia ancora della benza nel serbatoio," spiego ad Alfredo, che non ha granché voglia di stare a sentire, "si tratta di pompare a mano la super nelle taniche e nel serbatoio, standosene in piena vista troppo maledettamente a lungo."
Ardo piazza le ultime due taniche da venticinque litri sul pianale posteriore e chiude lo sportello.
"E poi," continuo, senza speranza, "la benzina che rischia di essere annacquata o zeppa di sedimento, perché nessuno ha più fatto manutenzione alle vasche in due anni, e quindi si finisce col mandare all'inferno il motore e dover cambiare macchina."
Il sistema migliore, come ho già spiegato, è andare finché si riesce, e quando si accende la spia della riserva scendere e prendere un'altra macchina.
Tanto di auto abbandonate non c'è certo scarsità, sulle nostre strade.
Ma Alfredo non ci vuole sentire.
"Non credo avrete problemi," mi dice.
Certo.
Ma il punto, ovviamente, è un'altro.
Questa uscita ha poco a che vedere con la benzina.
È un'uscita che ha il solo scopo di verificare se io sia affidabile.
Se tiro a squagliarmela, l'amico Ardo ha probabilmente licenza di uccidere.
Se ne sta con la sua Belstaff nera come un motociclista cattivo, il P90 a tracolla e imbraccia un cattivissimo G36 che promette guai a chiunque osi rifletersi nei suoi Ray-Ban di ossidiana.
Io guido.
Salgo a bordo, metto in moto.
Dalla porta d'ingresso, Clo esce, jeans e anfibi e un piumino nero lucido, dà un bacio sulla guancia ad Alfredo e si siede al mio fianco.
Ardo sale dietro.
"E questo cosa dovrebbe significare?"
"Io vengo con voi," dice.
Alfredo si affaccia al mio finestrino, lo stampo del rossetto sulla guancia ispida.
"Lei viene con voi," dice.
La lista per cui questa corsa suicida dovrebbe essere annullata si è appena allungata.
"Questa non è una gita scolastica," gli dico.
"Beh, lei non è più una scolaretta da un sacco di tempo," ghigna il padrone di casa.
Ardo mi batte sulla spalla destra.
"Vai," dice.
Vado.

Non è una corsa lunga.
Ci incuneiamo nella valle e puntiamo verso Nizza.
Alla prima stazione di servizio, dico, ci fermiamo e facciamo il lavoro.
E poi via.
Clo se ne sta seduta scomposta coi piedi sul cruscotto, e ascolta un lettore mp3, lo sguardo perso sulla campagna brinata che scorre oltre il finestrino.
Ardo è una presenza carica e senza sicura alle mie spalle.
Scendiamo i tre curvoni della malora, superiamo la vecchia azienda vinicola, il supermercato nel parcheggio del quale pare si sia svolta una festa pagana, i gusci aneriti di auto bruciate costelati di pezzi di carta colorata che il vento ha lasciato impigliati nelle scocche deformate.
E poi, entrati sulla rotonda, svoltiamo a destra.
Cento metri.
Duecemto.
Siamo in vista della ferrovia quando l'insegna storta di una stazione di servizio ci segnala che la corsa è finita.
Fermo davanti ad una pompa.
"Diamoci una mossa," dico.
Le lancette girano.
Ardo scende e rimane con la portiera aperta, l'arma lunga pronta, movimenti relitti di una scuola da guardia del corpo, o forse di un'esperienza da sequestratore.
"Tu resti a bordo!" dico alla ragazza.
Lei mi guarda, muovendo la testa a tempo con la musica.
Piede di porco.
Faccio saltare la copertura in lamiera della pompa.
Sotto c'è il meccanismo di pompaggio manuale ma manca la leva.
Tempo tempo tempo.
Il bugigattolo del benzinaio è ingombro di carte, i vetri sfondati, le bottiglie di plastica dell'olio lubrificante sfatte per le intemperie hanno riversato il oro contenuto un po' ovunque, trasformando il pavimento piastrellato in una palude viscida e maleodorante.
Niente a vista, niente nella piccola scrivania.
Fuori.
Sul retro c'è una sorta di armadietto metallico.
Faccio saltare il lucchetto.
Una tuta di ricambio, un calendario del 2012, un paio di stivali, una cassetta degli attrezzi, un cestello arruginito contenente bottiglie di birra vuote, la leva della pompa.
E vai.
Prendo due bottiglie, le caccio nella tasca della giacca mimetica, abbranco la leva.
Torno sul davanti, accoppio la leva all'albero di trasmissione, dò un paio di colpi senza troppa convinzione.
I tubi gorgogliano.
Colgo un movimento con la coda dell'occhio?
No.
Impreco.
Pompo con maggior decisione.
Niente.
"Quest'affare è morto," dico.
Ardo spara un colpo.
Un corpo stramazza a terra sull'angolo, a circa cinquanta metri da dove stiamo.
Impossibile dire se fosse un infetto o un sopravvissuto.
Qualunque cosa fosse, ora non lo è più.
Muoviamoci.
Superiamo la ferrovia, superiamo il ponte, svoltiamo a destra, cinquecento metri fino alla rotonda.
Distributore.
Stessa configurazione - Ardo copre il perimetro, io attacco una delle pompe.
Ho con me la leva recuperata nell'altro distributore.
Apro il pannello sulla pompa.
Diversa azienda.
Diverso meccanismo di pompaggio.
Imprecazione.
Le lancette continuano a girare.
Vado direttamente all'armadietto esterno, faccio saltare la catena.
La solita accozzaglia di ciarpame assortito.
Trovo la leva sopra una pila di depliant della raccolta a punti.
Prendo quello, uno stracio unto, una bottiglia di sapone liquido e un tubolare per biciclette.
Uno, due, tre, quattro.
La benzina sgorga dalla pistola.
Metto mezzo litro nelle due bottiglie, poi comincio a riempire la prima tanica.
Intanto mi guardo attorno.
Posizione pessima.
Il fiume alle spalle, tre strade che si spalancano davanti a noi, no, quattro.
E zero copertura.
Taglio un po' di pezzi di tubolare e li caccio nelle bottiglie, insieme col sapone.
Passo alla seconda tanica.
Ne abbiamo sei.
Sono a metà della quarta quando Ardo spara il primo colpo.
Accelero il ritmo.
Un pezzo di straccio nei colli delle bottiglie.
Passo alla quinta tanica.
La portiera del passegero è aperta.
Il sedile è vuoto.
"Dov'è la ragazza?!"
Ardo si volta a guardarmi, come se la presenza di Clo fino a quel momento gli fosse sfuggita.
Poi torna a voltarsi, prende la mira, abbatte altre due sagome in avvicinamento.
Io mi guardo attorno.
Dove diavolo è andata?
Carico rapidamente la quinta tanica e mando all'inferno la sesta.
Dov'è la ragazza?
Mi volto verso la mia scorta.
"Sai cosa devi fare," gli dico.
Lui annuisce.
Punto verso i portici, verso il centro, verso i negozi.

L'apocalisse non è stata tenera con Nizza Monferrato.
Le strade sono cosparse di frammenti di vetro, le vetrine dei negozi e dei bar trasformate in bocche spalancate su gole buie e minacciose, le facciate dei palazzi sfregiate da bruciature.
L'impressione di qualcosa che si muova nell'oscurità è forte, ma non ho tempo, non ora.
La deficiente è arrivata fino alla piazza dove facevano il mercato delle verdure, fino alla fontana.
Cuffie nelle orecchie.
Si rende conto di avere compagnia nel momento in cui l'avvisto.
Strilla, arretra.
Prima che il giallo la raggiunga sollevo la doppietta e sparo.
Monopalla.
È vero che a questa distanza non ha senso mirare di fino, ma è anche vero che basta che prenda, e l'amico avrà problemi più urgenti che nutrirsi.
Il colpo impatta l'anca, e lui si accartoccia come una bambola di carta.
Clo si volta e corre verso di me, impallandomi completamente la linea di tiro.
Nel momento in cui mi raggiunge, alle nostre spalle Ardo passa a raffiche brevi, da tre colpi.
La prendo per un polso e comincio a correre, la doppietta nella sinistra, tenuta stretta all'altezza della vita.
I due che mi si parano davanti si prendono una scarica di pallettoni.
Mi butto di lato, tirandomi dietro la ragazza.
Meglio evitare le chiazze di sangue.
Siamo sulla rotonda.
Ardo sta tenendo a distanza una marmaglia infetta e demente.
I più portano scampoli di abiti ormai senza forma, un paio sono nudi come vermi, il corpo maculato da lividi violacei, un paio sembrano figurini in incongrue giacche a doppiopetto e cappotti con l'orlo sbrindellato.
Non so quanti siano.
Troppi.
Sono fra noi e la macchina.
Ci fermiamo.
Una molotov è per tutte le stagioni.
Accendino BIC.
Fiamma a manetta.
Fuoco allo straccio.
Un bel respiro, braccio disteso ma rilassato, arco di parabola.
Non sforzare, e prega che le bottiglie non siano infrangibili.
La prima palla di fuoco esplode fra i piedi dei malcapitati che ci stanno sbarrando il cammino.
Scompiglio.
Con la seconda, il gruppo si sgrana, un paio fanno il numero dell'uomo di fuoco.
Afferro la ragazza per il polso e la trascino in avanti, ignorando la paura dei contagiati che la paralizza, ignorando la mia paura dei contagiati - dopo Canelli, questa è una cosa quasi normale.
Il fumo è nero e acre di benzina e plastica.
Corro e trattengo il respiro, gli occhi che bruciano, la ragazza tossisce.
Arriviamo alla macchina.
"Dentro!"
Partiamo sgommando senza neanche chiudere le portiere, e in capo a cinquecento metri quasi finiamo in un fosso quando la strada curva senza preavviso.
La riprendo, rientro in carreggiata e avanti, a tavoletta, fino a che la città non è alle nostre spalle, alte volute di fummo nero, e poi l'esplosione.
Pessimo cocktail, molotov e stazione di servizio.
L'apocalisse non è stata cortese, con Nizza Monferrato.

Nessuno apre bocca fino alla villa.
Clo si massaggia imbrociata il polso indolenzito.
Ardo infila cartucce nel caricatore.
La mia mente corre a diecimila.
Portare questa gente a Milano significa suicidarsi.
Io non mi voglio suicidare.

Manovre notturne (2)

gennaio 21, 2011

Le quattro del mattino sono l'ora ideale.
Il sonno è nella sua fase più profonda.
L'alba è ancora lontana.
Esco sul pianerottolo.
In cima alle scale, in una presa, c'è una luce-guida blu che inonda l'ambienta di una luce da acquario.
Resto immobile, in ascolto.
Se voglio uscire vivo da questo manicomio devo sapere tutto quello che c'è da sapere.
Tutto quello che il padrone di casa non ha detto.
Scendo di sotto - un gradino alla volta sulla scala.
Sotto, Ardo - o forse è Stefan - monta di guardia.
I due dormono a turno.
Aspetto che si sposti sul davanti della casa, ed attraverso il salone, complice la moquette spessa.
Corridoio, porta - fortunatamente aperta - ala padronale.
Scala a salire.
Anche qui, in cima c'è una luce-guida.
Arrivo in cima.
Dritto di fronte, stanza, poi a destra ampio pianerottolo, quattro porte.
Porta chiusa.
Ascolto.
Niente.
Provo la maniglia, di quelle a pomo, lucida, fredda.
Gira.
La porta si apre.
La luce blu illumina una striscia larga dieci centimetri di una stanza nel caos.
Fra il caos, riconosco gli anfibi di Clo.
Chiudo.
La porta successiva dà su un bagno molto ampio.
La terza sulla stanza principale.
Grande armadio con porte a specchio sulla destra, cassettiera sulla sinistra, al centro un letto colossale sul quale Alfredo giace supino, Chibi drappeggiata addosso come un plaid.
Sto per chiudere quando la porta alla mia destra si aprre.
Entro nella stanza da letto e giro dietro la porta, che di necessità resta aperta.
Passi.
Sbircho nella fenditura tra stipite e battente.
Una sagoma femminile, avvolta in una vestaglia con motivi orientali, scende le scale.
Tombola.
Abbiamo un passeggero in più.
Alfredo emette un grugnito.
Piano, adesso...
Tocca aspettare cinque minuti buoni. poi la donna torna a salire le scale.
La vedo.
Bionda, non più giovane.
Familiare, in qualche modo.
Porta una tazza fumante in una mano ed un pacchetto di biscotti nell'altra.
Passa davanti alla porta aperta e lancia un'occhiata, senza fermarsi.
D'istinto arretro, il tallone colpisce qualcosa che rotola silenziosamente sul tappeto per poi urtare una gamba del letto con un sonoro Toc!
Bottiglia vuota.
Lei si ferma, torna indietro, entra nella stanza.
Uno.
Due passi.
Se dovesse voltarsi ora...
Spalle al muro, scivolo in posizione rannicchiata, sperando che le mie ginocchia non decidano di scrocchiare proprio questa volta.
Intanto il padrone di casa si sistema con un movimento inconsapevole, e la ragazzina che gli sta addosso emette una specie di lamento.
La donna coi biscotti scrola il capo, si volta, esce.
Aspetto tre minuti buoni, poi sguscio fuori e torno nella mia stanza.
Un po' più saggio, un po' più curioso.

Manovre notturne

La porta si apre attorno all'una, una lama di luce blu che taglia la stanza in due e poi si allarga a ventaglio, illumina i libri di Asimov, il poster del sistema solare, il computer, e poi torna a restringersi, escompare.
A questo punto ho già le forbici strette in pugno.
Un fruscio, un gemito, le doghe del letto che cigolano.
Un'esclamazione.
Accendo la lampada del comodino.
Ci sono probabilmente cose più ridicole di una giovane donna seminuda arrotolata lascivamente attorno ad un cuscino, ma al momento non mi vengono in mente.
"Non è un po' tardi?" le chiedo.
Il fatto è, vedete, che a me ormai i letti troppo morbidi generano una certa inquietudine - troppo facile sprofondare in un sonno troppo profondo, troppo facile non accorgerssise qualcuno si avvicina, troppo facile lasciarci la pelle.
Da un paio d'anni, avere un sonno leggero non è una cattiva idea.
Quindi, ok, grazie dell'ospitalità, ma da una settimana io qui dormo sul pavimento, fra il letto e la finestra dell'abbaino - che se qualcuno dovesse cercare di entrare da fuori, la prima cosa che fa è calpestarmi.
Clo cerca di darsi un tono.
Non è facile quando hai addosso solo delle mutandine di pizzo e sei impasticcata di brutto.
Però bisogna ammirare l'impegno.
"Se ti piace tanto," le dico, indicando il cuscino che stringe fra le cosce, "puoi anche portartelo in camera."
Lei mi manda affanculo e mi tira il cuscino.
"Forse è meglio se torni a letto," le dico.
Lei si tira su, in ginocchio al centro del materasso, e incrocia le braccia dietro alla testa.
Nel cono di luce della lampada IKEA, vedo che ha un tatuaggio vicino al caspezzolo sinistro.
Una lucertola.
E un carattere cinese sotto all'elastico dello slip.
"Non hai voglia?" mi chiede.
Ha la voce impastata, le pupille troppo dilatate.
Io penso solo a due numeri - quattro e sedici.
Gli anni di astinenza.
La sua età.
Potrebbe essere mia figlia.
Mi alzo in piedi.
"Non è questione di avere voglia o meno," le dico.
"Sei frocio?"
Beata gioventù.
"E non è anche questione di essere frocio, come dici tu," le dico.
Mi sento stanchissimo.
"Hai paura di Alf," dice, con un sorriso cattivo.
Alf.
Scaccio dalla mente l'immagine di questa ragazzina a letto col melmacchiano della TV.
"No," le dico. "Non ho paura di lui," mento.
"Il fatto è che non puoi buttarti nel letto di uno che non sai neanche chi sia..."
"Sei faina, quello di internet..."
Provo una grande tristezza.
"Non puoi saltare nel letto di uno e sventolargli le tette sotto al naso..." le dico, cercando di spiegare, "Non è così che funziona... Oscar Wilde sbagliava, non è solo un tappo e una bottiglia... non è solo godiforte..."
Fa un ghigno brutto, sguaiato. "Come se importasse a qualcuno," dice.
Perfetto.
"Ecco," le dico, prendendola per le spalle, ed accompagnandola alla porta senza che lei opponga resistenza. "Il fatto è che, qui, ora, a qualcuno importa."
E la chiudo fuori.
Mi sibila improperi per un paio di minuti, poi dà un calcio alla porta e se ne va.
Torno alla mia coparta sul pavimento, rimetto le forbici dove so di poterle trovare al buio, e spengo la lampada sul comodino.
L'apocalisse dovrebbe essere meno complicata.

Una città da inalare

gennaio 19, 2011

Alfredo ha bisogno di un ninja.
"Tu sei uno tosto," mi dice dopo pranzo, "sei uno che sa muoversi fra le colline, che riesce a sfangarla anche quando lo chiudono in un angolo. Sei un combattente."
Siamo tornati nel salone, siamo tornati al mobile bar.
Chibi è tornata alla Playstation, Clo è stravaccata su una poltrona che sfoglia una rivista.
Nessuna traccia dei due tirapiedi.
La mia lattina di acqua brillante è coperta di condensa.
"Sei il tipo giusto per fare da apripista, per garantire che noi si riesca ad arrivare a Milano senza troppi problemi."
Lo guardo.
"Milano? E perché dovremmo andarci a cacciare in quella fogna?"
Alfredo scrolla la testa.
"Non ti tieni aggiornato, Faina," mi dice, con un ghigno. "A Milano c'è un posto dove atterrano gli elicotteri."
Continuo a guardarlo.
"Sono gli inglesi... Da loro il contagio è stato contenuto..."
"Come no."
"Stanno recuperando le persone sane che si trovano a Milano..."
"Sono elicotteri molto piccoli, allora."
Sbatte la mano sul bancone.
"Non fare lo stronzo, Faina! Gli inglesi stanno sgomberando Milano, ed io voglio un posto su uno di quei fottuti elicotteri!"
Prende un bel respiro.
Sento che Clo alle mie spalle ha smesso di voltare pagina, sento i suoi occhi morti fra le scapole.
"Voglio un posto per tutti noi, per me, per te, per le ragazze, per tutti gli altri," dice.
Certo.
Ammesso che questa storia degli elicotteri sia vera, la Corona Britannica sarà ben felice di accogliere un piccolo ras di borgata e la sua corte dei miracoli.
"Come sai che ci daranno un passaggio?" gli chiedo.
"Pagando."
Mi domando seriamente come sia riuscito a sopravvvere tutto questo tempo.
"I soldi aprono tutte le porte, eh?"
Lui sogghigna. "Io ho di meglio dei soldi," dice.
Guarda sopra la mia spalla.
"Piccola, fagli vedere..."
Sento Clo che si alza ed esce sciabattando dal salone.
Uno, due minuti, mentre il padrone di casa se la ride saputo.
Poi la ragaza ritorna, posa una valigetta sul bancone, la apre, allunga un dito, lo passa sulla superficie di una dele buste di plastica e poi lo porta alle labbra, strizza l'occhio e scoppia in una risata di gola.
"No, un attimo..."
Questo sta diventando troppo malato anche per l'apocalisse.
Pianto i miei occhi in quelli di Alfredo, blku, acquosi.
"Tu intendi attraversare la campagna nella stagione peggiore per arrivare a Milano, giocare a rimpiattino con un milione di gialli incazzati finché non arriva un ipotetico elicottero, e poi pagarti un passaggio fino allo stadio di Wembley offrendo al governo britannico una valigiata di cocaina?"
Lui chiude delicatamente la valigia.
"Di queste bambine ne ho tre," dice, serio.
"E no, non intendo pagare i ragazzi sull'elicottero... intendo pagare uno dei ricchi stronzi che hanno i contatti e per i quali gli elicotteri scendono a comado, in modo che ci garantisca un passaggio."
"Riesci ad immaginare," dice Clo, appoggiando entrambi i gomiti sul bancone, e sporgendosi in avanti, "Un grattacielo pieno zeppo di ricchi baùscia che da un anno non hanno qualcuno che li rifornisca di neve?"
È il discorso più lungo che le abbia sentito fare in una settimana, ed è delirante.
Ma Alfredo le dà una pacca sul sedere.
"Ci adoreranno," dice.
E scoppia a ridere.
"Ed ora vai a riposarti," mi dice. "Domani tu e Ardo andate giù in valle."
Guardo oltre le porte-finestre.
La nebbia è un muro solido, reso lattescente dalla luna piena.
"Cos'è, hai finito i sottaceti?"
Lui scrolla il capo.
"Per arrivare a Milano, ci serve benzina."

Alfredo

gennaio 16, 2011

Alfredo non è uno di quelli che sono diventati ricchi con l'Apocalisse.
Alfredo ricco - per lo meno secondo i parametri generali con cui si misurava la ricchezza prima - lo era già - anche se lui steso ammette candidamente che nessuno, forse nemmeno lui, sapeva esattamente in quale settore operasse.
Da quel che ho capito io, che ho una mente semplice, Alfredo si occupava di teziario avanzato.
Servizi.
Intrattenimento.
No, non il cage-fighting con l'infetto o l'orgia degli zombie, o simili deliri da collasso culturale terminale.
Cose più sedate, più convenzionali.
Più terra terra.
Cose a minor profilo, ma he sono andate avanti molto più a lungo.
Locali, pubblici o meno.
È qui la festa.
Ai tempi d'oro, da Alfredo, ci trovavi la musica, lo sballo, le minorenni compiacenti, i ragazzini pronti alla sperimentazione.
Per portare a suonare la tua band nel locale di Alfredo... in uno dei locali di Alfredo... dovevi mettere giù tremila euro secchi per il locale, e lasciargli tutti gli incassi dei biglietti e tutte le consumazioni.
La band, fattela pagare dagli sponsor.
Immagino praticasse condizioni simili anche agl spacciatori ed ai macrò.
Alfredo non amava correre rischi allora, e non ama correrli adesso.
Comunque vada, lui ci guadagna.

Stevan e Ardo, che mentre noi ceniamo nel salone mangiano in cucina, li aveva conosciuti agli inizi, quando come attività collaterale faceva recupero crediti.
Ragazzi che si sono fatti le ossa durante i Balcani.
Se siano fratelli, amici o amanti, resta una questione che nessuno ha finora ritenuto opportuno indagare.
Quando la situazione ha cominciato a scaldarsi, Alfredo non ha aspettato.
Ha riempito la dispensa, si è procurato mezzi blindati e armi, e si è asserragliato nel suo villone, e quando i Gialli si sono fatti sotto, Ardo e Stevan li hanno uccisi.

Alfredo a tavola parla volentieri di sè.
Non gli va che io lo abbia definito il Diavolo, e vuole mettere le cose bene in chiaro.
Mentre lui parla, e mangia, la ragazza con gli occhi morti giocherella col cibo.
Si chiama Clò, l'età non è pervenuta.
Passa le giornate ad ascoltare musica e guardare film.
Alfredo la scopa, o la impasticca duro e la mette a letto con Chibi, l'altra ragazzina, quando vuole solo guardare.
A lui piace.
Alle ragazze sta bene così.
Chibi, che credo non abbia più di quindici anni, ma potrei sbagliare, a tavola gioca con un PSP e mi pare completamente bruciata, solo il cervello rettiliano ancora online.
Ma ripeto, potrei sbagliare.

Cibo ottimo e abbondante - minestrone di verdure, tonno, birra Ceres o Pepsi twist, tutto in lattina, vino stappato al momento da una cantina evidentemente ben fornita - Barbera, Barbaresco, Gavi, Arneis... Alfredo non è il tipo da Barolo - dessert con frutta sciroppata in scatola e biscotti secchi.
Caffé.

Questa non è la villa di Alfredo.
Lui e la sua corte si stanno spostando ad est, ed hanno occupato la struttura più lussuosa della zona.
Ma è una cosa temporanea.
Ed è qui, dice lui, che entro in gioco io.

Reality show

gennaio 15, 2011

Il padrone di casa ci tiene a farvi sapere che si chiama Alfredo, e non è il Diavolo.
Non la trovate snervante anche voi questa specie di metafiction?

A casa del Diavolo

gennaio 14, 2011

I due tipi dall'aria slava mi beccano mentre cerco di rimettere in moto un furgoncinodelle poste abbandonato su una strada secondaria fra Bruno e Incisa.
Giacche della Belstaff, occhiali scuri, PS90 in assetto da guerra totale.
Vedi due tizi così e cosa fai?
Alzi le mani e li segui.
Mi caricano su un SUV coi vetri fumé, uno guida e l'altro sta seduto dietro.
Non parlano.
Non sono aggressivi.
Il viaggio è breve.
Raggiungiamo un villone perduto nella nebbia, sul cucuzzolo di una collina.
Bianco, vasto e dall'aria imprendibile come il castello di Osaka, muri bianchi e tegole color cioccolato.
Un secondo SUV ed una Porsche Carrera dorata parcheggiati sul davanti.
Grande giardino.
Campo da tennis.
Mi portano dentro.

Il soggiorno è bianco e nero.
Moquette bianca, poltrone di pelle nere, pareti bianche, mobile bar neo, sofitto bianco, un televisoe LCD da due ettari che pare il monolito di 2001, nerissimo.
I miei due accompagnatori mi conducono fino ad una poltrona.
Uno prende la mia tracolla, l'altro posa la mia doppietta sul tavolino di vetrò fumé del salotto Le Corbusier.
In piedi davanrti a me, quello che è facile intuire sia il padrone di casa mi guarda a braccia conserte.
Jeans, felpa blu della VIRTUS, zoccoli del Dr Scholl.
Ha grossomodo la mia età, un fisico solido da atleta andato male, appesantito ma ancora relativamente in forma. Capelli biondi spazzolati all'indietro, gli occhi azzurri mi guardano con aperta curiosità.
Seduta a terra sulla moquette spessa, dietro di lui, una ragazzina con un golfino strimilzito, viola cardinale, sta giocando con una playstation.
Coniglietti muoiono in maniere orrende sullo schermo colossale.
Mi ignora, isolata da grosse cuffie stereofoniche rosa shocking.
Un'altra ragazza, di poco più grande, siede su uno degli sgabelli di pelle e acciaio cromato al bancone del mobile bar, e scartabella il libretto di un CD.
L'uomo mi dà il benvenuto.
Mi chiama per nome.
E già questo on mi piace.
"Sei una cazzo di celebrità," mi dice, con un sorriso autocompiaciuto.
Io guardo il fucile sul tavolino fra noi due.
Canna sinistra, monopalla.
Canna destra, pallettoni.
"Io leggo il tuo blog, sai," mi dice. Punta un dito verso il soffitto. "Uplink satellitare, " dice.
Ride.
"Mi è piaciuto il post sui piccoli Hitler," dice. "Roba tosta quella che scrivi."
Raggiunge il bar, e passando dà una strizzata alla tetta destra della ragazza coi CD.
Non una carezza, ma neanche un pizzicotto.
Una strizzata, come a un antistress.
"Non essere maleducata, piccola," le dice, "saluta la faina."
Lei mi guarda con gli occhi più morti che io abbia mai visto.
"Bevi qualcosa?" chiede lui passando dietro al bar.
Lei viene verso di me.
Porta un crop top e degli short a vita bassissima.
"Un uischino, una vodca, un brendi, un quantrò?"
"Faina," dice lei, "Quello di Internet?"
Mi viene vicina, molto vicina.
Sento il suo odore - un'impressione appena di lucidalabbra alla fragola sopra ad una patina di sudore.
"Che figata," dice lei.
"Un'acqua brillante?" continua il padrone di casa.
"In lattina," gli rispondo.
La mia voce è bassa, arrochita, sporca.
Da quanto tempo non parlo con un essere umano?
Settimane almeno.
Lui si china, prende una lattina gialla da un frigorifero.
La posa sul bancone, poi si ferma, mi guarda e scoppia a ridere, una risata di pancia, a bocca aperta.
"In lattina!" esclama.
Si volta verso i due energumeni. "In lattina!... l'avete capita la faina?"
Continuando a ridere viene verso di me.
Mi allunga la lattina gelida.
"Nessun rischio di contagio, eh?"
Col braccio sinistro cinge la vita della ragazza.
Lei gli si struscia addosso, ma continua a guardarmi con i suoi occhi morti.
Lui le lucida una chiappa con la mano aperta, ma continua a guardarmi anche lui.
sarei più a mio agio nel castello di Frankenfurther.
Le dà una sonora pacca sul culo.
"Levati dalle palle," le sussurra, e poi "Tu mi piaci," dice, mentre lei si allontana. Soleva il bicchiere in un brindisi. "Mi piaci perché sei uno che sopravvive, sei come me, non hai cazzi, ci somigliamo noi due..."
E fa di nuovo quella sua risata grassa.
"Cosa volete da me?"
Lui fa un gesto con la mano, come per scacciare delle mosche.
"Ne parleremo più tardi," dice. "Abbiamo tutto il tempo."
"Sono vostro prigioniero?"
Ride.
"Prigioniero, no, perché... ospite, un gradito ospite."
"Allora posso riavere il mio fucile."
Smette di ridere.
Mi fissa, con quegli occhi azzurro pallido, e sotto all'aria da insegnante di ginnastica al liceo un po' tamarro traspare per un attimo, solo un attimo, qualcosa di molto duro e tagliente, e pericoloso.
Sullo schermo i coniglietti continuano a morire.
"Stevan," dice. "Dagli il suo fucile."
Uno dei due tirapiedi viene avanti, prende la doppietta e me la offre, cn un sorrisetto.
La prendo con entrambe le mani, e lui non la lascia, per un attimo la trattiene, contrae i muscoli.
"Era di mio padre," dico.
Lo lascia andare.
Il padrone di casa ride di nuovo, posa il bicchiere ormai vuoto vicino alla lattina gialla ancora vergine.
"Mostragli la sua stanza," dice.
Stevan fa un cenno col capo.
Sento i suoi occhi sulla mia schiena.

Dopo sei settimane accovacciato fra gli sterpi, per dieci minuti sono in muta contemplazione del water ed del rotolo della carta igienica.
Poi mi caccio sotto la doccia e per qulla che mi pare un'eternità rimango sotto all'acqua bollente, lasciando che lavi via la fatica, i chilometri, e la sporcizia.
Emergo dal vapore della cabina indolenzito e vecchio.
Nel pensile dietro allo specchio, sul lavabo, ci sono forbici, un pacchetto di rasoi usa e getta, una bombola di schiuma Noxema, un barattolo di Prepp.
Il mio volto rasato è di due colori diversi, con delle rughe che non ricordavo, attorno agli occhi, alla bocca.
L'ultimo anno ha eliminato i chili di troppo senza tuttavia rimpiazzarli con muscoli particolarmente tonici, e la pelle mi casca addosso come un abitio di due taglie troppo grosso.
Mi guardo le mani.
Sono le mani di mio padre, ma lui aveva settant'anni passati ed io non ne ho ancora cinquanta.
Rientro nella camera che mi hanno assegnato.
Sul letto da una piazza e mezza, insieme con la mia borsa ed il mio fucile, ci sono un paio di pantaloni ed una felpa, grigi, ancora chiusi nelle buste di cellophane, e a terra un paio di Superga di tela.
Tutto più o meno della mia misura, tutto molto adatto per stare in questa casa sontuosa e maledettamente troppo calda, ma sarebbe follia affrontare la nebbia là fuori con solo questa roba addosso.
Mi siedo sul letto e mi guardo attorno.
La stanza di un ragazzo, di un adolescente: una mppa del sistema solare del National Geographic, una scafalata con una quindicina di libri di Asimov, una scrivania con sopra un PC.
Il letto è comodo e invitante.
Ma c'è altro da fare.
Con una sedia blocco la porta.
Poi accendo il computer.
Ho dei fan che aspettano di leggermi.

Il Segnale 2

gennaio 06, 2011

Tra Cassinasco e Rocchetta

gennaio 04, 2011

Tre giorni malandato e dolorate sui sedili posteriori di una monovolume spiaggiata da qualche parte fra Cassinasco e Rocchetta Palafea.
Non ho più il fisico per certe cose.
Non ho mai avuto il fisico per certe cose.
Ma grazie al cielo la temperatura è crollata e in questo folto di gaggie non viene nessuno.
La macchina è andata, ma sono vivo, relativamente sano, e con un sacco di idee.
Quelle non costano nulla.

Una dieta a base di aspirine effervescenti, cioccolato fondente e succo d'arancio mi ha rimesso in piedi.
Si fa per dire.
Ho ancora le gambe doloranti e la schiena a pezzi, ma i crampi sono passati, come pure il tremito, e l'impressione di avere la febbre a quaranta.

In retrospettiva, non è stato difficile.
Sarebbe stato bello averci pensato prima.
Un idrante.
Una manichetta antincendio, di quelle chiuse nella gabbietta di metallo, col vetro segmentato.
Esiste poco di altrettanto letale quando ci sono dieci gradi sottozero, e il vento.

IN CASO DI NECESSITÀ ROMPERE IL VETRO

Parole sante.

Loro arrivano urlando.
Sparo un paio di colpi, sapendo che non ci sarà il tempo per ricaricare.
Poi dò mano alla leva dell'idrante.
E per pochi istanti, mentre le sagome si avvicinano, mi dico è andata, l'acqua è gelata nei tubi, la pompa è spaccata, non c'è carico, sono morto.
Poi le tubature emettono un gorgoglio profondo, che si trasforma in un ululato, un ruggito, un'esplosione, ed una colonna d'acqua maleodorante esplode dalla manichetta e investe i miei assalitori, li spinge indietro, li travolge, li ributta sul marciapiedi, insieme con fogli di carta, frammenti di vetro, sedie.
Avanzo lentamente, domandandomi quanto potrà durare.
Li innaffio per bene.
Sono a terra, l'alito come nebbia, gemono, sono inzuppati, il vento è tagliente sulla mia faccia asciutta, immagino come possa essere sulla loro.
Si muovono come al rallentatore, un paio stramazzano a terra.
Una ragazza coi brandelli di una camiciola da notte si appallottola alla base del muro e rimane immobile.

E poi via, di corsa.
Solo un paio mi stanno dietro, ma sono troppo malandati.
Uno è quello dall'aria troppo sveglia per i miei gusti.
Quello che, se devo credere alle mie impressioni mentre sfreccio lungo le strade deserte di Canelli, ha mandato gli altri avanti.
Vado verso sud, dove ho lasciato l'auto, verso Piazza Cavour, sapendo che nello spazio aperto l'aria sarà più fredda, il vento più forte.
Inciampo un paio di volte, rotolo a terra, mi rimetto in piedi.

La piazza - che poi sono tre, è un labirinto di carcasse d'auto e altri rottami.
Un gruppetto di gialli emerge da quella che poteva essere una banca, o forse un supermercato.
Questi sentono il freddo, ma sono ancora vispi.
Continando a correre, provo le maniglie delle portiere.
È una monovolume grigia che si apre.
A bordo, borse della spesa, una 24 ore, un cellulare.
Le chiavi sono nell'accensione.

Giro la chiave.
Niente.
Bestemmio.
Il motore si avvia con un rantolo.
C'è benzina nella macchina?
Sì, c'è benzina nella macchina.

Come diavolo sono arrivato fin quassù, in vista di Cassinasco, non lo so.
La corsa, il freddo e la paura mi hanno massacrato come bastonate.
Dolore alle gambe, alla schiena, alle braccia.
Rotolo sul sedile posteriore, mi stiracchio con un gemito.
C'è un plaid, di quelli che davano in omaggio dal benzinaio.
Mi ci avvolgo, e aspetto.

Del mio equipaggiamento, a parte la doppietta, tutto è rimasto a Canelli.
Comincia a nevicare.
Mi domando se ne uscirò vivo.
Poi mi addormento.